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  • Giovedì 5 aprile 2012

L’assedio di Sarajevo

Le foto e la storia del simbolo più sanguinoso della guerra civile in Jugoslavia, che cominciò venti anni fa

A Sarajevo man pushes his wheelbarrow full of wood, past a car that was destroyed earlier during the siege of Sarajevo on Tuesday, March 9, 1993. The street is normally in open view of Serbian snipers, but light snow or fog sometimes shields pedestrians on the city streets below from snipers. (AP Photo/Michael Stravato)
A Sarajevo man pushes his wheelbarrow full of wood, past a car that was destroyed earlier during the siege of Sarajevo on Tuesday, March 9, 1993. The street is normally in open view of Serbian snipers, but light snow or fog sometimes shields pedestrians on the city streets below from snipers. (AP Photo/Michael Stravato)

Sarajevo, la capitale della Bosnia-Erzegovina, è una città lunga e stretta, circondata dalle montagne lungo un piccolo affluente del fiume Bosna, la Miljacka. Per gran parte della città, le acque della Miljacka sono profonde solo pochi centimetri. Vicino a uno dei ponti che attraversano la Miljacka a Sarajevo, il Ponte Latino, venne ucciso nel giugno del 1914 l’arciduca ed erede al trono dell’impero austroungarico Francesco Ferdinando.

Dopo la morte del dittatore Tito nel 1980 – quando Sarajevo era una città della Jugoslavia comunista – le tensioni tra le diverse etnie crebbero insieme alla retorica nazionalista, in particolare del presidente della repubblica serba Milosevic, e alle rivendicazioni che affondavano in centinaia di anni di divisioni culturali, religiose, sociali: la Jugoslavia, “terra degli Slavi del sud”, nata dopo la prima guerra mondiale, si divise quindi a partire dal dicembre del 1990, con la dichiarazione di indipendenza della Slovenia, a cui seguirono quelle della Croazia, della Macedonia e della Bosnia. L’intervento militare dell’esercito jugoslavo unitario e delle diverse milizie delle etnie che componevano la Jugoslavia si trasformò presto in una sanguinosa guerra civile, tra i croati, i bosniaci, e i serbi. Croazia e Serbia volevano controllare la Bosnia multiculturale che ospitava persone sia  serbe che croate assieme a musulmani bosniaci (che qualcuno chiama bosgnacchi).  L’episodio centrale della guerra fu l’assedio della città di Sarajevo, che durò per quattro anni dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, più di tre mesi oltre la firma degli accordi di Dayton che misero fine ufficialmente alla guerra.

In un referedum tenuto tra il 29 febbraio e il primo marzo 1992, i bosniaci e i croato-bosniaci votarono per oltre il 90 per cento a favore dell’indipendenza. La minoranza serba, che aveva già votato quattro mesi prima in un altro referendum per rimanere unita alla Serbia e al Montenegro, non partecipò al voto. Il 3 marzo 1992, la Bosnia-Erzegovina dichiarò l’indipendenza. La capitale del nuovo stato era Sarajevo, popolata per circa la metà da musulmani, per il 7 per cento circa da croati e per circa un terzo da serbi, anche se prima dell’assedio molti di questi ultimi lasciarono la città.

Pochi giorni dopo la dichiarazione d’indipendenza, circa 13.000 uomini dei Reparti della Sarajevo-Romanija, parte dell’Esercito Serbo-Bosniaco (erede per la maggior parte di un reparto composto da serbo-bosniaci dell’esercito jugoslavo) iniziarono con diverse migliaia di uomini a circondare Sarajevo, un accerchiamento che completarono nei primi giorni di maggio. I combattimenti nella città iniziarono il 5 aprile 1992, il giorno prima che la Comunità Europea riconoscesse l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina: quel giorno uomini armati spararono sulla folla di migliaia di persone che partecipavano a una marcia per la pace spontanea, diretta verso l’edificio del parlamento bosniaco che secondo alcune voci era stato occupato dalle forze serbe. Nei giorni successivi, dalle colline intorno a Sarajevo le forze serbo-bosniache iniziarono il bombardamento della città usando l’artiglieria pesante, mortai e carri armati. All’interno della città, i serbo-bosniaci avevano il controllo di alcune zone, e piazzarono cecchini in diversi punti strategici e in cima agli edifici più alti, sparando e lanciano granate quotidianamente sui civili. L’esercito musulmano-croato all’interno della città, male organizzato e poco equipaggiato, non era in grado di rompere l’assedio (su tutte le parti in conflitto era in atto un embargo internazionale nella vendita delle armi).

L’assedio fu particolarmente duro e i combattimenti violenti durarono fino alla metà del 1993: alla fine di quell’anno, praticamente tutti gli edifici della città erano stati danneggiati dai bombardamenti, inclusi gli ospedali, gli edifici governativi e le sedi delle Nazioni Unite. Sulla città, secondo le stime delle Nazioni Unite, caddero durante l’assedio proiettili di artiglieria con una media di oltre 300 al giorno. La Biblioteca Nazionale bruciò fino alle fondamenta e il suo contenuto di libri e codici antichi venne interamente distrutto. Le strade della città sono tuttora marcate da decine di “rose di Sarajevo“, le tracce nell’asfalto e sui muri lasciate dallo scoppio delle granate e poi riempite di resina rossa per ricordare il luogo delle esplosioni.

Nei primi sei mesi del 1993, per aggirare l’embargo delle armi e permettere l’ingresso di aiuti umanitari nella città, venne scavato uno stretto tunnel, lungo circa un chilometro, dai sobborghi della città fino alla zona dell’aeroporto a sudovest della città, posto in una zona nominalmente neutrale e sotto il controllo delle Nazioni Unite, ma che non sfuggì ai bombardamenti dei serbo-bosniaci. Attraverso il “tunnel di Sarajevo” passarono per mesi armi, cibo e materiali di ogni tipo, nonché l’allora presidente (il primo della Bosnia-Erzegovina) Alija Izetbegović su una carrozzella.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò a partire dall’estate del 1992 una settantina di risoluzioni sulla guerra civile in Jugoslavia, per la grande maggioranza vaghe e incapaci di influire sul corso della guerra. L’opinione pubblica europea e mondiale assisteva sui mezzi di comunicazione agli aggiornamenti continui sulla guerra e sui crimini che vi venivano commessi, compresa la strage quotidiana operata dai cecchini serbi sulla popolazione civile della città. Il 5 febbraio 1994, l’artiglieria serba comandata dal generale Ratko Mladic colpì un mercato di Sarajevo, causando 68 morti: la strage aumentò le pressioni sui musulmani bosniaci e sui croati perché smettessero di combattersi tra loro nel resto del paese e si unissero per rispondere ai serbo-bosniaci. Il giorno successivo, il segretario generale delle Nazioni Unite Boutros Boutros-Ghali chiese alla NATO di intervenire.

Nell’aprile del 1994, la NATO iniziò una campagna di bombardamenti aerei limitati alle posizioni serbo-bosniache intorno alla capitale. Dopo un’altra strage di civili a causa dei colpi di mortaio degli assedianti nell’agosto 1995, i bombardamenti contro i serbo-bosniaci si intensificarono con la campagna Operation Deliberate Force e i serbi vennero costretti ad arrendersi e partecipare ai negoziati di pace.

I bombardamenti e i cecchini uccisero circa 10.000 persone, secondo le stime del rapporto delle Nazioni Unite sull’assedio di Sarajevo, e ne ferirono altre 50.000 durante i 44 mesi dell’assedio, il più lungo nella storia della guerra moderna. La popolazione della città è oggi intorno ai 350.000 abitanti, oltre 70.000 persone in meno dell’inizio dell’assedio, ed è quasi interamente composta da bosniaci musulmani, dopo un lungo passato da metropoli cosmopolita.