L'antagonista Francesco incontra lo Tsipras delle Ande

Il papa torna nella sua America Latina con una missione: porre il marchio cristiano sulle rivoluzioni di Correa in Ecuador e di Morales in Bolivia.
di Piero Schiavazzi
Pubblicato il
[Carta di Laura Canali]
[Carta di Laura Canali] 
[Articolo pubblicato originariamente su L'Huffington Post]

Sarà pure una coincidenza casuale, ma non per questo meno “provvidenziale”, da manuale: quella che il Vangelo definirebbe un “segno dei tempi”.

Agli occhi degli storici risulterà, e risalterà, infatti la sorprendente, strabiliante sincronia. Da un lato un leader epicentrico e universale come Bergoglio, che nell’enciclica Laudato si’, pubblicata il 18 giugno, esorta testualmente alla “resistenza” contro il “paradigma tecnocratico”. Dall’altro un premier eccentrico, trasversale come Tsipras, che dieci giorni dopo la pone in essere, puntualmente, ribellandosi ai diktat della Troika: quando si dice un comportamento “ortodosso”, di nome e di fatto. Atene e Roma, in un revival epocale, tra l’incubo di un salto tenebroso nel buio e il sogno di un ritorno luminoso alle origini: come ai bei tempi che furono, a significare che la storia profonda prima o poi presenta il conto, pure agli angeli e alle “Angele”, da Bruxelles a Berlino.

Vista da qui, e in tale prospettiva, la Grecia diventa il test ambientale, per rimanere in tema, del “clima” evocato dall’enciclica. L’incarnazione del suo precetto e verbo più trasgressivo: resistere. Firmato Francesco. Da Trento al Vaticano II, dal Syllabus Errorum alla Gaudium et Spes si sono succeduti e alternati pontefici restauratori o riformatori. Reazionari o rivoluzionari.

Ma un “ribelle” che predica e pratica la resistenza configura una mutazione genetica del papato, una sua evoluzione o variante del Terzo Millennio, sotto le volte della Sistina e del Sudamerica. Dai prodigi del pennello di Michelangelo al battito d’ala poderoso del condor.

La Poderosa: si chiamava così, a dispetto del motore ansimante, la vecchia Norton con cui nel 1951 il ventenne Ernesto Guevara, futuro Che, risalì l’emisfero in diagonale, nell’epopea cinematografica dei diari della motocicletta. Un itinerario alla scoperta soprattutto di se stesso, tra lo splendore dei paesaggi e la miseria dei popoli. Una dorsale andina che Francesco oggi percorre a scendere, anch’egli protagonista di un viaggio interiore, bypassando i giganti, paulisti o bairensi, e salendo sui vagoni di coda del reddito pro capite: Ecuador, Bolivia, Paraguay, specie i primi due, laboratori del socialismo del XXI secolo.

Le “Grecie” d’America, verrebbe da dire, sconosciute al grosso pubblico nei loro sussulti eppure in grado di compromettere, sul nascere, la stabilità della Patria Grande, il miraggio dell’unità che affascina e accompagna da sempre ogni leadership continentale, da Bolívar a Bergoglio. In tale scenario, il viaggio sancisce un punto d’arrivo, sciogliendo l’equivoco e rovesciando il trend di mezzo secolo, con il superamento definitivo della teologia della liberazione, “libera” dalle scorie del contagio ideologico, e con il suo upgrade, anzi la sua “assunzione” nell’empireo della teologia tout court.

La Chiesa di Francesco non teme più di inseguire la rivoluzione. Al contrario, ne assume la guida, offrendole un orizzonte concettuale e organizzandola in uno spessore materiale. Si tratta di una duplice strategia e liturgia, teorico - pratica, elaborata in Laudato si’ e celebrata prossimamente in Bolivia il 9 luglio, a Santa Cruz de la Sierra, durante il 2° incontro mondiale dei “movimenti popolari”, nucleo della nuova “internazionale” o se vogliamo della nuova “alleanza” tra Dio e il popolo, tra Sede Apostolica e Sud del pianeta. Iniziativa che Francesco ha fortemente voluto e tenuto a battesimo a ottobre in Vaticano, convocando ad limina i senza tetto e i senza terra, i campesinos e i centri sociali. E che oggi conferma e rafforza in loco, amministrando loro una cresima di maturità e scambiando gli strumenti di ratifica, come in un trattato: l’enciclica e il documento conclusivo del convegno, che sarà consegnato al Pontefice alla stregua di un “manifesto” e proclama per il millennio. Precari di tutto il mondo, unitevi!

Non a caso ad aspettarlo sulla pista dell’aeroporto di Quito, e sulla linea dell’Equatore che divide il Settentrione dal Meridione del globo, Francesco ha trovato lo Tsipras delle Ande, il presidente Rafael Correa.

Un leader che con il suo sosia mediterraneo vanta una decisa somiglianza perfino fisica oltre che politica, nei tratti e negli atti, avendo inciso il suo profilo, a colpi di scalpello referendario e défault finanziario, nella roccia dell’opposizione alle troike d’oltreoceano: Fondo Monetario, Banca Mondiale, Dipartimento del Tesoro. Sul ciglio della cordigliera, Correa è riuscito fin qui a mantenersi in bilico tra il radicalismo dell’enunciato costituzionale e il pragmatismo dell’operato presidenziale. Tra le riserve della biodiversità e i serbatoi del petrolio, autorizzando l’estrazione dagli uni senza penalizzare con la distruzione le altre.

Condividendo con Alexis Tsipras la propensione all’azzardo e il senso dell’accelerazione improvvisa, insieme al fiuto della virata in extremis, del pugno e della mano tesa. Infine l’abilità di mixare suoni politici ancestrali e postmoderni, come solo un pronipote degli Inca e degli Achei. Quito del resto sorge ai piedi di un vulcano ed è attraversata da due burroni, visualizzando le sperequazioni della società e le acrobazie dei governanti, avvinti al bisogno di colmare il gap dello sviluppo economico e conservare l’integrità del patrimonio naturalistico. Il sipario si alza dunque sulla più suggestiva delle scenografie che si potesse immaginare, con una perfetta corrispondenza tra il luogo e il logos, i tracciati topografici e storiografici.

Francesco non è più l’outsider che partì nel 2013 dal Río de la Plata verso un approdo inconsapevole di sola andata, spinto dalle brezze sferzanti di Buenos Aires e dall’alito caldo del Paraclito. Nemmeno il front runner del kolossal della Giornata Mondiale della Gioventù, che sbarcò quattro mesi dopo sulla spiaggia di Copacabana, onorando l’impegno in calendario e sbaragliando ogni record, in anticipo di un anno sul mondiale calcistico e addirittura di tre sul medagliere olimpico. Questa volta è un leader antagonista, un tedoforo che corre in proprio e in salita, senza nascondere la priorità, la vera meta geopolitica della trasferta: portare la fiamma della sua Pentecoste a tremila metri di altezza, tra Quito e La Paz, dove siedono i due caudillos più “altolocati” dell’America Latina, l’economista Correa e il sindacalista Morales.

Eredi del duo caraibico e marxista Castro-Chávez e araldi di un socialismo andino e cristiano. Segnando con la croce, al posto di falce e martello, la fronte dei suoi comandanti e facendo dell’Equatore il fronte della resistenza contro i conquistadores della tecno-finanza. Una sfida che tuttavia esige una risposta preliminare alla domanda che il “bilingue” Correa gli ha rivolto a bruciapelo all’arrivo, con un simbolismo universale, declinabile nell’alfabeto quechua delle tribù indie, appreso sul campo, e negli algoritmi matematici neokeynesiani, appresi nei campus:

Come mai il continente più cattolico è anche quello con le maggiori differenze, e distanze, sociali tra ricchi e poveri?

Per approfondire: Francesco e l'Occidente mai così lontani